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Il management finanziario è cattivo o è buono?

“Capito Massimo? La prossima volta spiegalo bene che gli indicatori di bilancio sono fondamentali anche in un’azienda Lean!”

La voce all’altro capo del telefono è quella di Francesco. Francesco è un amico. Ha appena assistito alla mia ultima conferenza online, nella quale riflettevo a voce alta sull’attenzione esclusiva dei manager finanziari (cui opponevo i “lean manager”) verso gli indicatori di bilancio.

Per esempio, riflettevo sulla propensione a sostituire le persone con le macchine. La ragione di questa propensione è duplice. In primo luogo, perché le macchine non vanno motivate, gestite, formate e non si ammalano. In secondo luogo perché – quasi sempre – l’obiettivo del management è legato soprattutto a un indicatore chiamato EBITDA. L’EBITDA è l’utile dell’azienda al netto di alcune voci, giudicate poco influenti sul lungo termine, come gli interessi, le tasse e gli ammortamenti. Nell’EBITDA, gli stipendi sono calcolati come costo, mentre gli ammortamenti delle macchine no. È un trucco facile: se sostituisci uomini con macchine, e il tuo obiettivo è sull’EBITDA, vinci sempre.

Oppure, riflettevo sulla pratica diffusa di chiedere a ciascuna funzione di ridurre del (ad esempio) 10% il proprio budget di costo. Prendiamo le spese di manutenzione: se le riduco del 10%, ho un doppio effetto. Da un lato le macchine si rovineranno solo tra qualche anno, mentre i costi li riduco subito. Dall’altro i costi, quando ci saranno, saranno eccezionali e fuori dall’EBITDA. Per rendere concreto il ragionamento: c’è il forte sospetto che il Gruppo Autostrade abbia tirato ben bene – e per anni – sui costi di manutenzione dei ponti. Il risultato lo conosciamo.

Ascolto Francesco con attenzione. Il suo tono mi ricorda il mio, quando ragiono con un caro amico No Vax. E questo mi colpisce e mi terrorizza: è possibile che il Lean Thinking possa essere percepito come il pensiero No Vax delle aziende? O come il pensiero dei Complottisti sulle Torri Gemelle?

Ci ho pensato e – sì, è possibile. È possibile purtroppo. 

 

La gestione odierna delle maggiori aziende, fatta con un drive prevalentemente finanziario, si è dimostrata vincente. E sotto molti punti di vista.

Un imprenditore, o un gruppo di soci – e soprattutto i figli – a un certo punto raggiungono i propri limiti. Sono spesso dei geni del business, delle relazioni e della gestione situazionale.  Ma sono come i ragazzi che giocano per una vita a pallone sulla sabbia: (probabilmente) non riusciranno ad essere efficaci come quelli tirati su da allenatori attenti – eppure sono (probabilmente) più geniali.

L’imprenditore perde di vista sacche di inefficienza gigantesche che nessuno gli ha insegnato a guardare. Il manager finanziario le riconosce con un’occhiata. E quasi sempre riesce, con una capriola che dura 5 anni, a svuotarle e moltiplicare il valore finanziario (cioè l’EBITDA).

Ha reso l'azienda più forte?

Sì, spesso sì. Ed ecco perché.

  • In primo luogo, il management finanziario, divenuto proprietario, obbliga l’azienda a pratiche più efficienti: fare un budget invece che andare a naso, scrutinare i costi inutili, guardare i numeri ogni mese invece che all’inizio dell’anno successivo, tagliare i rami secchi dell’azienda, seguire da vicino i progetti di miglioramento (che solitamente si trascinano per anni)… Gli effetti di queste e altre pratiche ci sono, e sono reali.
  • In secondo luogo, una delle pratiche preferite da parte del management finanziario è proprio quella di snellire i processi di produzione con le tecniche “Lean”. È in questo punto preciso che il Lean Thinking si annacqua, e diviene realmente “una delle tante pratiche di efficientamento”. Toyota ha identificato delle tecniche di produzione che sono terribilmente efficienti, e il management finanziario l’ha capito benissimo. Ridurre gli stock, lavorare a flusso, migliorare la qualità dei processi, o incrementare la standardizzazione, sono concetti sdoganati. Probabilmente, il management finanziario è quello che li sa applicare con più dovizia. Il distacco dal terreno gli consente di non dover ascoltare chiunque ha un tiramento. Poche palle. Avanti. E alla fine i numeri gli danno ragione. Non c’è che dire: funziona.
  • In terzo luogo, il management finanziario è “connesso”, e vede (spesso in modo corretto) due cose: come più aziende possono trarre sinergie, e come le aziende si iscrivono nei macro-trend economici. Il mondo economico non è una pianura regolare, ma è fatto di montagne con i loro passi, di mari con i loro stretti e porti naturali, di pozzi petroliferi e terre attraverso le quali dover trasportare il petrolio.

Se io acquisto un’altra azienda che mi consente di essere dominante in un “punto del sistema”, trarrò benefici rilevanti da questa mia posizione – come chi domina una valle di passaggio. Se compro Crysler e Obama mi ringrazia, o se compro Youtube e WhatsApp e divento predominante nei social, o se finanzio sistematicamente le start up dell’energia verde, ebbene colgo vantaggi competitivi accessibili a pochi. Il circolo chiuso di Mediobanca non esiste più ed è diventato globale, certo; ma la logica intessuta attorno a soldi e potere è sempre la stessa. Ed è sempre efficace.  

È un male? Per molti versi, no. Ringraziano soddisfatti migliaia di lavoratori di Detroit, milioni di utenti dei social e miliardi di persone che tremano per il futuro della Terra.

E allora, che vogliono questi rompiscatole del Lean Thinking? Questi eretici che gridano “penitenziagite”, come direbbe Umberto Eco?

Credo che Francesco, con quel tono, volesse dirmi questo, in qualche senso: di parlare di Lean Thinking, ma non gridare “penitenziagite”.

O, per essere più precisi, di fare attenzione che le persone non odano un “penitenziagite” che non c’è stato. Infatti, come si è naturalmente portati a supporre dei complotti, allo stesso modo si ha voglia gettare il bambino che piange con l’acqua del bagno.

Allora, di cosa parliamo?

Per me, parliamo di questo. Il Lean Thinking propone una (tra le tante possibili) evoluzione di questo sistema.

Il management finanziario ha la tracotanza dei vincitori. Quella di sempre. La stessa che impediva ai nobili medievali di vedere l’insostenibilità di una scala sociale rigida, ai proprietari terrieri del 1700 di vedere l’arrivo dell’età delle macchine, agli stessi industriali di vedere l’insostenibilità delle condizioni sociali operaie, a Ford e ai fordisti di vedere che l’interesse intrinseco nel lavoro ha un valore, ai burocrati che c’è un interesse che va oltre il puro rispetto delle regole.

Ogni vincitore ha la sua tracotanza. Ogni tracotanza non vede il proprio limite, che confonde con un qualsiasi effetto collaterale, come si confonderebbe una vicina collina con una lontana montagna.

Anche il management finanziario ha la sua tracotanza. Ed è quella di credere che tutto si traduca in numeri. Che, alla fine, contano solo i numeri. Tradurre in numeri ha indubbi vantaggi, tra cui tutti quelli sopra indicati e certo degli altri. Ma la tracotanza sta nel credere che non è possibile raggiungere quei vantaggi senza il potere egemonico della traduzione in numeri.

Però, ci sono controindicazioni che sembrano come colline vicine, ma sono montagne. E neppure troppo lontane.

  • La prima è che la traduzione in numeri consente ai cattivi di nascondersi. Se il mio obiettivo è migliorare l’EBITDA di quest’anno, è lecito ridurre la manutenzione dei ponti, che crolleranno solo tra dieci anni, quando io sarò sul mio yacht alle Canarie. È lecito sostituire persone con macchine, anche se perdo competenze sviluppate nel corso di decenni. È lecito acquistare ad est (che sia Europa dell’Est o Cina), anche se perdo la capacità di “fare” e quindi, tra dieci anni, mi troverò preso per il collo dai quei fornitori tanto convenienti. Non dico che nasconde i problemi futuri: solo uno sciocco non capirebbe che quei problemi si manifesteranno, dirompenti. Dico che nasconde i cattivi, ossia quelli che li ignorano volutamente per il proprio tornaconto. Perché non sono tutti cattivi, i manager finanziari. Questo è un luogo comune, ed è sbagliato. Ma, tra loro, i cattivi non possono essere additati dagli altri: il sistema non ne prevede la possibilità.
  • La seconda controindicazione, è che il management finanziario ignora il vero potenziale umano. L’esperienza gli ha insegnato che i lavoratori sono resistenti al cambiamento, e che i risultati migliori li hai se gli imponi di fare come loro sanno che le cose funzionano. Ma il potenziale umano c’è: semplicemente non riesce a emergere. Certo ci sono coach, formazioni, eventi e Chief Happiness Officer per ravvivare la motivazione: ma sono tutti cerotti sulla ferita. In realtà, se c’è da aumentare i costi per (ad esempio) fermare sistematicamente la produzione e ragionare sui difetti, la scelta del manager finanziario è presto fatta: i costi andranno sull’EBITDA di quest’anno, e i vantaggi si vedranno solo tra qualche tempo. In realtà (altro esempio), se il manager deve mettere le scarpe antinfortunstica e andare in produzione a parlare con le persone, a interessarsene davvero, e questo ogni giorno, ci sono sempre riunioni più importanti cui assistere. In realtà (e la smetto con gli esempi), si guarda se i manager portano i risultati, e poco importa come si occupano dei collaboratori: se sanno parlare, ascoltare, dare feedback, curare la fiducia del team. Diventa un vezzo secondario.
  • L’ultima controindicazione, è che il management finanziario ragiona in termini di efficienza e non di resilienza. Se nel mondo dell’aviazione si ragionasse negli stessi termini di efficienza, e ci fosse la stessa non qualità di una linea di produzione, allora cadrebbero lo 0,5% degli aerei con migliaia di morti all’anno. Se io tiro l’efficienza dell’ufficio progettazione, non potrà discutere con la produzione per migliorare i prodotti futuri. Se io tiro l’efficienza dei commerciali, non potranno costruire quel rapporto umano con i clienti, che è il solo che paga nel lungo termine. Se io incremento il ritmo di lavoro, necessariamente non si imparerà, ci si stancherà, si andrà in malattia, si sbaglierà. In breve: se c’è da spendere per rendere il sistema meno efficiente ma più resiliente, si storce rapidamente il naso.

Eppure, anche il nostro corpo è soprattutto resiliente. Se si ferma un rene, ce n’è un altro. Se una parte del cervello smette di funzionare, plasticamente il resto si adatterà. Abbiamo ben più denti del necessario. E così via.

L’obiettivo del management finanziario, invece, è l’efficienza al limite del quinquennio. Certo, capiamoci, nessuno ha l’anello al naso: se i macchinari fossero al collasso, o se ci fosse il 20% di assenteismo, se fosse una scatola vuota, anche in presenza di un EBITDA elevato, quell’azienda non la comprerebbe nessuno. Non porto il ragionamento a questo limite.

Tuttavia, ci sono risorse che nessuno nota e di cui nessuno si cura: qual è la capacità e la competenza di tutti i collaboratori di partecipare al miglioramento continuo? Qual è il coinvolgimento degli ingegneri nel miglioramento dei processi produttivi? Quanto le diverse funzioni sanno collaborare piuttosto che essere divise sui propri obiettivi? Quanto è chiara per tutti la strategia? Qual è la fiducia in azienda? e da parte dei clienti? E quindi: quanto l’azienda partecipa a costruire un futuro migliore?

Nessuno vede, in altri termini, tutta una categoria di risorse dell’azienda non connesse alla sua efficienza. Tutti lo capiscono benissimo che esistono. La tracotanza, non è ignoranza. In fondo, come per tutte le tracotanze, è solo una fragilità mascherata, e consiste nel credere impossibile un’altra realtà.

 

La conseguenza cumulata di tutto questo, è la voracità del sistema finanziario nel suo insieme: orientato ai numeri, è orientato alla “crescita per la crescita” nel breve o, al massimo, nel medio periodo (5 anni). Se ci sono conseguenze sulle singole aziende, le conseguenze più evidenti sono quelle cumulate sull’ambiente e sulla società. E qui, nasce la tentazione della società di credere al complotto, e di gettare via, con una rivoluzione “qualechessia”, tutto il mondo finanziario.

 

Ecco cosa è il Lean Thinking: una possibile proposta di un superamento del management finanziario, SENZA buttare via ciò che funziona bene. L’idea è di includere e trascendere il management finanziario, attraverso un paradigma diverso. Un paradigma, per dirla così, che consenta di “vedere” i cattivi.

 

Sarebbe un discorso lungo. Ma è descritto in tutti i veri libri Lean (quelli che non parlano solo di efficientamento dei processi). Qui mi limito a dire che tale superamento deve prevedere la capacità di apprendere di un’azienda (il miglior modo di misurare la sua resilienza). Come il nostro corpo chiude un taglio con sangue coagulato, come sa reagire alle malattie, come sa svilupparsi senza la nostra volontà, così ogni parte dell’azienda deve saper gestire in modo autonomo (ma coordinato e finalizzato) qualsiasi evoluzione ambientale. Un compito esclusivamente umano.

Il problema è che tutto questo sta non nei numeri, ma nel modo di fare management. Che per essere valutato necessita di paradigmi soggettivi, non quantificabili. Dovremmo forse tornare a fidarci degli esperti che valutano e giudicano. Chissà.

Questi paradigmi, comunque, esistono. Ad esempio, esistono in Toyota ma anche in molte altre aziende. Forse non sono quelli che sopravviveranno, forse ce ne saranno altri. Chissà. Ma supereremo il modello esistente – se prima non romperemo qualche equilibrio superiore.

 

Il Lean Thinking, in questo senso, è il pensiero aziendale più moderno che conosco. È una proposta concreta, fatta di strumenti, di logiche, di principi e di prassi per includere l’attenzione all’efficienza e alle logiche di bilancio E ANCHE trascenderla, attraverso l’inclusione della capacità di apprendimento di tutto quel sistema complesso che prende il nome di azienda.

 

Francesco, va meglio così? 😉